Una quaresima con un papà per amico

Papa Francesco ha volu­to indire per il 2021 un anno ded­i­ca­to alla figu­ra di San Giuseppe. Che cosa anti­ca e devozion­is­ti­ca potreste pen­sare in molti. Ma bas­ta leg­gere il doc­u­men­to scrit­to da Papa Francesco per imbat­ter­si invece in uno scrit­to alta­mente educa­ti­vo. E noi non siamo i figli di un educatore?

Giuseppe del resto pos­si­amo dire che è sta­to l’educatore di Gesù e guardan­do a lui pos­si­amo impara­re davvero tante cose.

Vi con­siglio davvero di cer­carvi la let­tera del Papa “Cuore di Padre” con la quale fa uno splen­di­do ritrat­to di San Giuseppe, molto moderno.

La vera moti­vazione parte dal­la parte finale del­la let­tera al pun­to 7, una med­i­tazione tan­to vera e tan­to bel­la che vi ripor­to per intera per­ché meri­ta essere gus­ta­ta, e per­me­t­tete­mi uno svar­i­one di genere forse fuori luo­go, ma dove trovate Padre si può spes­so leg­gere in fil­igrana Madre. Gen­i­tori insom­ma. In Gras­set­to m i per­me­t­to met­tere le frasi più belle per me.

Padri non si nasce, lo si diven­ta. E non lo si diven­ta solo per­ché si mette al mon­do un figlio, ma per­ché ci si prende respon­s­abil­mente cura di lui. Tutte le volte che qual­cuno si assume la respon­s­abil­ità del­la vita di un altro, in un cer­to sen­so eserci­ta la pater­nità nei suoi confronti.

Nel­la soci­età del nos­tro tem­po, spes­so i figli sem­bra­no essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisog­no di padri. È sem­pre attuale l’ammonizione riv­ol­ta da San Pao­lo ai Cor­inzi: «Potreste avere anche diec­im­i­la ped­a­goghi in Cristo, ma non cer­to molti padri» (1 Cor 4,15); e ogni sac­er­dote o vesco­vo dovrebbe pot­er aggiun­gere come l’Apostolo: «Sono io che vi ho gen­er­a­to in Cristo Gesù medi­ante il Van­ge­lo» (ibid.). E ai Galati dice: «Figli miei, che io di nuo­vo par­torisco nel dolore finché Cristo non sia for­ma­to in voi!» (4,19).

Essere padri sig­nifi­ca intro­durre il figlio all’esperienza del­la vita, alla realtà. Non trat­ten­er­lo, non imp­ri­gionarlo, non posseder­lo, ma ren­der­lo capace di scelte, di lib­ertà, di parten­ze. Forse per questo, accan­to all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha mes­so anche quel­lo di “castis­si­mo”. Non è un’indicazione mera­mente affet­ti­va, ma la sin­te­si di un atteggia­men­to che esprime il con­trario del pos­ses­so. La castità è la lib­ertà dal pos­ses­so in tut­ti gli ambiti del­la vita. Solo quan­do un amore è cas­to, è vera­mente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diven­ta sem­pre peri­coloso, imp­ri­giona, sof­fo­ca, rende infe­li­ci. Dio stes­so ha ama­to l’uomo con amore cas­to, las­cian­do­lo libero anche di sbagliare e di met­ter­si con­tro di Lui. La log­i­ca dell’amore è sem­pre una log­i­ca di lib­ertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera stra­or­di­nar­i­a­mente lib­era. Non ha mai mes­so sé stes­so al cen­tro. Ha saputo decen­trar­si, met­tere al cen­tro del­la sua vita Maria e Gesù.

La felic­ità di Giuseppe non è nel­la log­i­ca del sac­ri­fi­cio di sé, ma del dono di sé. Non si per­cepisce mai in quest’uomo frus­trazione, ma solo fidu­cia. Il suo per­sis­tente silen­zio non con­tem­pla lamentele ma sem­pre gesti con­creti di fidu­cia. Il mon­do ha bisog­no di padri, rifi­u­ta i padroni, rifi­u­ta cioè chi vuole usare il pos­ses­so dell’altro per riem­pire il pro­prio vuo­to; rifi­u­ta col­oro che con­fon­dono autorità con autori­taris­mo, servizio con servil­is­mo, con­fron­to con oppres­sione, car­ità con assis­ten­zial­is­mo, forza con dis­truzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la mat­u­razione del sem­plice sac­ri­fi­cio. Anche nel sac­er­dozio e nel­la vita con­sacra­ta viene chiesto questo tipo di matu­rità. Lì dove una vocazione, mat­ri­mo­ni­ale, celi­bataria o verginale, non giunge alla mat­u­razione del dono di sé fer­man­dosi solo alla log­i­ca del sac­ri­fi­cio, allo­ra invece di far­si seg­no del­la bellez­za e del­la gioia dell’amore rischia di esprimere infe­lic­ità, tris­tez­za e frustrazione.

La pater­nità che rin­un­cia alla ten­tazione di vivere la vita dei figli spalan­ca sem­pre spazi all’inedito. Ogni figlio por­ta sem­pre con sé un mis­tero, un ined­i­to che può essere riv­e­la­to solo con l’aiuto di un padre che rispet­ta la sua lib­ertà. Un padre con­sapev­ole di com­pletare la pro­pria azione educa­ti­va e di vivere pien­amente la pater­nità solo quan­do si è reso “inutile”, quan­do vede che il figlio diven­ta autonomo e cam­mi­na da solo sui sen­tieri del­la vita, quan­do si pone nel­la situ­azione di Giuseppe, il quale ha sem­pre saputo che quel Bam­bi­no non era suo, ma era sta­to sem­plice­mente affida­to alle sue cure. In fon­do, è ciò che las­cia inten­dere Gesù quan­do dice: «Non chia­mate “padre” nes­suno di voi sul­la ter­ra, per­ché uno solo è il Padre vostro, quel­lo celeste» (Mt 23,9).

Tutte le volte che ci tro­vi­amo nel­la con­dizione di esercitare la pater­nità, dob­bi­amo sem­pre ricor­dare che non è mai eser­cizio di pos­ses­so, ma “seg­no” che rin­via a una pater­nità più alta. In un cer­to sen­so, siamo tut­ti sem­pre nel­la con­dizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che «fa sorg­ere il sole sui cat­tivi e sui buoni, e fa pio­vere sui giusti e sug­li ingiusti» (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio. (PC7)

Potrei fer­mar­mi qua ma voglio invogliarvi alla let­tura con altre pic­cole pillole:

Intan­to il Papa ne par­la a par­tire solo dai Van­geli e dalle notizie che ci offrono Luca e Mat­teo gli evan­ge­listi che lo nom­i­nano. Ci dice che: Tut­ti pos­sono trovare in San Giuseppe, l’uomo che pas­sa inosser­va­to, l’uomo del­la pre­sen­za quo­tid­i­ana, disc­re­ta e nascos­ta, un inter­ces­sore, un sosteg­no e una gui­da nei momen­ti di dif­fi­coltà. San Giuseppe ci ricor­da che tut­ti col­oro che stan­no appar­ente­mente nascosti o in “sec­on­da lin­ea” han­no un pro­tag­o­nis­mo sen­za pari nel­la sto­ria del­la salvezza.

Davvero abbi­amo bisog­no di risco­prire il fat­to che anche noi siamo pro­tag­o­nisti del­la sto­ria anche se siamo in sec­on­da linea.

Papa Francesco ci indi­ca Giuseppe come Padre nel­la tenerez­za. Quel­lo delle tenerez­za è un refraim di Papa Francesco molto forte. Come non ricor­dare la tenerez­za, pur san­guigna del Gas­pare? O gli occhi da cer­biat­to di don I? Sen­tite cosa ci dice:

Il Malig­no ci fa guardare con giudizio neg­a­ti­vo la nos­tra fragilità, lo Spir­i­to invece la por­ta alla luce con tenerez­za. È la tenerez­za la maniera migliore per toc­care ciò che è frag­ile in noi. Il dito pun­ta­to e il giudizio che usi­amo nei con­fron­ti degli altri molto spes­so sono seg­no dell’incapacità di accogliere den­tro di noi la nos­tra stes­sa debolez­za, la nos­tra stes­sa fragilità. Solo la tenerez­za ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è impor­tante incon­trare la Mis­eri­cor­dia di Dio, specie nel Sacra­men­to del­la Ric­on­cil­i­azione, facen­do un’esperienza di ver­ità e tenerez­za. Para­dos­salmente anche il Malig­no può dirci la ver­ità, ma, se lo fa, è per con­dan­nar­ci. Noi sap­pi­amo però che la Ver­ità che viene da Dio non ci con­dan­na, ma ci accoglie, ci abbrac­cia, ci sostiene, ci per­dona. La Ver­ità si pre­sen­ta a noi sem­pre come il Padre mis­eri­cor­dioso del­la parabo­la (cfr Lc 15,11–32): ci viene incon­tro, ci ridona la dig­nità, ci rimette in pie­di, fa fes­ta per noi, con la moti­vazione che «questo mio figlio era mor­to ed è tor­na­to in vita, era per­du­to ed è sta­to ritrova­to» (v. 24).

Anche attra­ver­so l’angustia di Giuseppe pas­sa la volon­tà di Dio, la sua sto­ria, il suo prog­et­to. Giuseppe ci inseg­na così che avere fede in Dio com­prende pure il credere che Egli può oper­are anche attra­ver­so le nos­tre pau­re, le nos­tre fragilità, la nos­tra debolez­za. E ci inseg­na che, in mez­zo alle tem­peste del­la vita, non dob­bi­amo temere di las­cia­re a Dio il tim­o­ne del­la nos­tra bar­ca. A volte noi vor­rem­mo con­trol­lare tut­to, ma Lui ha sem­pre uno sguar­do più grande. (PC2)

Dopo aver pre­sen­ta­to Giuseppe Padre nel­la tenerez­za ecco che Francesco ci offre Giuseppe Padre nell’accoglienza

Tante volte, nel­la nos­tra vita, accadono avven­i­men­ti di cui non com­pren­di­amo il sig­ni­fi­ca­to. La nos­tra pri­ma reazione è spes­so di delu­sione e ribel­lione. Giuseppe las­cia da parte i suoi ragion­a­men­ti per fare spazio a ciò che accade e, per quan­to pos­sa apparire ai suoi occhi mis­te­rioso, egli lo accoglie, se ne assume la respon­s­abil­ità e si ric­on­cil­ia con la pro­pria sto­ria. Se non ci ric­on­cil­iamo con la nos­tra sto­ria, non rius­cire­mo nem­meno a fare un pas­so suc­ces­si­vo, per­ché rimar­remo sem­pre in ostag­gio delle nos­tre aspet­ta­tive e delle con­seguen­ti delu­sioni. (PC 4)

Papa Francesco ci invi­ta poi a una pater­nità creativa

Se certe volte Dio sem­bra non aiutar­ci, ciò non sig­nifi­ca che ci abbia abban­do­nati, ma che si fida di noi, di quel­lo che pos­si­amo prog­ettare, inventare, trovare.

Si trat­ta del­lo stes­so cor­ag­gio cre­ati­vo dimostra­to dagli ami­ci del par­aliti­co che, per pre­sen­tar­lo a Gesù, lo calarono giù dal tet­to (cfr Lc 5,17–26). La dif­fi­coltà non fer­mò l’audacia e l’ostinazione di quegli ami­ci. Essi era­no con­vin­ti che Gesù pote­va guarire il mala­to e «non trovan­do da qual parte far­lo entrare a causa del­la fol­la, salirono sul tet­to e, attra­ver­so le tegole, lo calarono con il let­tuc­cio davan­ti a Gesù nel mez­zo del­la stan­za. Veden­do la loro fede, disse: “Uomo, ti sono per­do­nati i tuoi pec­ca­ti”» (vv. 19–20). Gesù riconosce la fede cre­ati­va con cui quegli uomi­ni cer­cano di por­tar­gli il loro ami­co mala­to. (PC5)

E ci ricor­da che San Giuseppe è il patrono dei lavo­ra­tori per­ché lavo­ra­tore lui stesso

In questo nos­tro tem­po, nel quale il lavoro sem­bra essere tor­na­to a rap­p­re­sentare un’urgente ques­tione sociale e la dis­oc­cu­pazione rag­giunge talo­ra liv­el­li impres­sio­n­an­ti, anche in quelle nazioni dove per decen­ni si è vis­su­to un cer­to benessere, è nec­es­sario, con rin­no­va­ta con­sapev­olez­za, com­pren­dere il sig­ni­fi­ca­to del lavoro che dà dig­nità e di cui il nos­tro San­to è esem­plare patrono.

Il lavoro diven­ta parte­ci­pazione all’opera stes­sa del­la salvez­za, occa­sione per affrettare l’avvento del Reg­no, svilup­pare le pro­prie poten­zial­ità e qual­ità, met­ten­dole al servizio del­la soci­età e del­la comu­nione; il lavoro diven­ta occa­sione di real­iz­zazione non solo per sé stes­si, ma soprat­tut­to per quel nucleo orig­i­nario del­la soci­età che è la famiglia. Una famiglia dove man­casse il lavoro è mag­gior­mente espos­ta a dif­fi­coltà, ten­sioni, frat­ture e perfi­no alla ten­tazione dis­per­a­ta e dis­per­ante del dis­solvi­men­to. Come potrem­mo par­lare del­la dig­nità umana sen­za impeg­nar­ci per­ché tut­ti e cias­cuno abbiano la pos­si­bil­ità di un deg­no sos­ten­ta­men­to? (PC6)

Cari ami­ci del Movi­men­to, cari Ragazzi di Don Ga. Ringrazi­amo che abbi­amo avu­to in dono pro­prio questo umilis­si­mo esem­pio di Padre nel­la Fede, il nos­tro ama­to don Ga, a un cer­to pun­to diven­ta­to “inutile” al don Ori­one, ma seg­no indelebile di quel Padre dei cieli dal quale veni­va­mo abbrac­ciati ogni vol­ta che ci abbrac­cia­va un quel padre rubi­con­do e sor­ri­dente qua sul­la terra.

Don Ful­ly